Questione Sarda

Omaggio a Giovanni Battista Tuveri

Giovanni Battista Tuveri (Collinas, 12 agosto 1815 – Collinas, 8 dicembre 1887) è stato un filosofo, scrittore e politico italiano(sardo!).

Nato a Forru, l'odierna Collinas, da un noto avvocato, nipote, per parte di madre, di un nobile e influente notaio di Oristano, Domenico Vincenzo Licheri. Dal 1827 al 1833 studiò retorica e filosofia nel seminario tridentino di Cagliari, conseguendovi il diploma di Maestro delle Arti. A diciotto anni si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Cagliari, verso cui mostrò sempre insofferenza per il clima rigido e chiuso che caratterizzava l'ambiente accademico cagliaritano. Conseguito dopo due anni il baccalaureato abbandonò l'Università e si ritirò a Collinas per dedicarsi ai suoi studi.

Di idee repubblicane cominciò l'attività di giornalista in polemica con molti intellettuali monarchici e conservatori.

Fu un esponente del cattolicesimo federalista, e fu eletto deputato per due volte al Parlamento Subalpino, ove si oppose alla fusione della Sardegna con i territori piemontesi, e fu in forte contrapposizione con Vincenzo Gioberti per le posizioni antirepubblicane e antimazziniane.

Nel 1850 fondò a Cagliari la Gazzetta Popolare e collaborò con numerosi giornali. Sindaco di Forru (1870 - 1887) ne propose il cambio del nome in Collinas; consigliere provinciale a Cagliari lottò contro il centralismo e promosse maggiore autonomia, soprattutto fiscale, per i piccoli comuni.

A livello nazionale, amico di Cattaneo e di Mazzini, sollevò nel 1867 la cosiddetta questione sarda, promuovendo un riscatto dell'Isola e del popolo sardo contro uno stato centralista e oppressivo.

Scrisse numerose opere di carattere politico, giuridico e filosofico.

Fonte Wikipedia


Giovanni Battista Tuveri non era indipendentista ma federalista, amava in modo particolare l'ordinamento statuale della confederazione Svizzera e la sua forma di decentramento e democrazia.
Pur non essendo indipendentista la sua opposizione alla fusione col Piemonte e i suoi scritti
ne fanno, a mio parere, da quello che ho letto finora, uno dei precursori più autorevoli e uno degli assi portanti di un sentimento indipendentista che ad ondate successive ha attraversato la nostra Isola.
L'idea è anche quella di pubblicare e commentare articoli e pezzi del passato oltre che del presente.



INITIUM SAPIENTIAE

MA CHI OSERA' ATTACCARE I CAMPANELLI AL GATTO?



Narra lo cronaca, come un gattone vorace e crudele quanto altro mai, mosse tal persecuzione ad una generazione di topi, che erano sempre in pericolo, o di morir di fame nei loro falansteri, o di venire sbranati, se per poco se ne allontanavano per buscarsi qualche bocconcino. Un giorno in cui il tiranno se ne stava alla campagna, uccellando, i meschini uscirono quatti quatti dalle loro topaie, a fare, com'essi dicevano, parlamento, onde consigliarsi sul modo d'impedire il totale sterminio della loro nazione. Io non istarò a riferirvi filo per filo i varj discorsi che si tennero in quel consesso, perchè tratto la cosa piuttosto incidentalmente. Al mio scopo basterà accennare, che il discorso che incontrò maggiormente fu quello, che conchiudeva col proporre che si ponesse al gatto un collare tutto gremito di sonagli i quali, col loro tintinnio, secondo che diceva il proponente, avrebbero dato agio a ciascuno di mettersi in salvo.

Nel mentre però i topi, dirizzatisi come meglio potevano, plaudivano colle loro zampine, e squittivano, quasi avesse parlato un re ad una torma di deputati leali, un topo che stava seulle quattro zampe si rizzò anch'esso, ed interruppe: <<Ma chi oserà attaccare i campanelli al gatto?>>.

Quest'interruzione, che rimise l'assemblea nel più cupo scoraggiamento, restò come un proverbio a significazione di propositi, che tutti riconoscono vantaggiosi, ma che quasi niuno osa manifestare o recare ad effetto.

E questo proverbio mi venne in mente, nel farmi a parlare delle condizioni tristissime della Sardegna. Che il suo stato sia divenuto intollerabile, non è chi nol senta e nol dica. Ma chi oserà attaccare i campanelli al gatto; chi oserà indagare la vera causadei nostri mali, proporre il vero rimedio?...

Io! Io che egualmente disprezzo, e l'odio di cui mi onora il governo e i favori con cui rimunererebbe la mia servilità: io che mi serbai sempre ritto in mezzo ai tanti liberaloni che vedete tuttodì curvarsi, per razzolare nel fango i rilievi gittati dinnanzi a loro dalla fazione in esso dominante.

Dacchè ci fu concesso lo Statuto (il quale si risolve nella facoltà di scrivere e parlar di politica, salva al governo di far quel che gli pare, checchè si scriva o si dica), non mancarono geremiadi sulla Sardegna.

Da alcuni mesi in qua, queste lamentazioni sono divenute più insistenti e più assordanti.

Molti però fra quelli che si assumono di parlare in nome dell'Isola (e dico molti per lasciare un cantuccio all'amor proprio di ciascuno) m'hanno l'aria di limosinanti, anziché d'oratori d'un popolo, che sente la propria dignità, e che si crede in grado di farsi rispettare. Un tempo era la povera ora è l'affamataSardegna, che grida, senza posa: Misericordia!

A questo grido di pezzenti, non pochi tra i nostri fratellid'oltremare esclamano, tra stizzosi e beffardi: <<Voi poveri, voi affamati, voi che abitate una delle regioni d'Europa più favorite dalla natura. Smettete d'una volta la vostra pigrizia, e con essa la petenzione che l'Italia abbia da fare le spese della vostra poltroneria!>>. Ma quelli che si credeno farla da generosi, ora ci promettono un tratto di strada, un quartiere, un carcere, qualche altra opera pubblica, ora giungono al disinteresse di adempiere ad alcuna delle fatte promesse; ora ci mandano qualche migliaio di scudi. E tosto il lecca-zampe a sbracciarsi in ringraziamenti ed a gridare: <<vedette i vantaggi della nostra fusione con un gran regno!>>. Generosità di usurai; dimande e ringraziamenti di pezzenti!

La Sardegna è veramente povera; ha essa bisogno di stendere la mano a chicchesia per fare delle opere, che alla perfine non importerebbero che uno o due milioni all'anno? La Sardegna produce quanto basta ad un vivere, non che comodo, agiato; e può provvedere da sé a quanto è nei suoi voti. La Sardegna vive vita stentata, per lo stesso motivo, per cui milioni di italiani sono costretti annualmente ad emigrare per le regioni più rimote della terra o sono ridotti a sfamarsi con patate, castagne, polenta, o con frutti che la natura destina alle bestie.

La Sardegna è povera, perchè soggiace ad un governo senza cuore e senza cervello, e che per soprappiù ha la mania di credersi cuore e cervello della nazione.

Come sperare, che un popolo possa prosperare sotto un governo, che, con le sue estorsioni, scoraggia, prostra ogni attività, disecca le sorgenti della produzione? Se alcuno dubita che la miseria o l'agiatezza d'un popolo dipenda del governo, pensi a ciò che erano un tempo e a ciò che sono ora, Genova, Pisa, Olanda, Venezia, Amalfi, insomma tutte le repubbliche divenute principati. E se si vuole un esempio vivente, qual differenza non passa tra la repubblica svizzera e i paesi limitrofi della Val d'Aosta, della Savoia, della Valtellina, del Trentino, ecc.? Pure, tra quei paesi e la svizzera, non passa quasi altro divario, che la diversità di governare: e questa diversità si rivela al viaggiatore nell'aspetto degli abitanti, delle abitazioni, e delle campagne in tutto.

Qui parmi, che taluni mi gridino: <<Gli è questo il campanello che voi, con eroico ardimento, avete promesso di attaccare al gatto? All'udire le vostre spampanate, noi ci aspettavamo alcun che di più ardimentoso, che questo di accusare il governo delle tristissime condizioni in cui è caduto lo stato. La è un'accusa, che, se potessero parlare avrebbero il coraggio di fare sino i vostri topi; un'accusa, che fanno, a quando a quando, fino i giornali dell'Isola>>.

Però i miei interruttori non badano al divario che passa tra accusa ed accusa. Io agito, ed ho sempre agitato una questione di principi; gli altri sogliono agitare una questione di persone.

Per me il governo è qual dev'essere in forza della sua organizzazione: un ministero dell'estrema destra non mi fa più temere di quel che mi faccia sperare un ministero dell'estrema sinistra, perchè reputo entrambi come ordigni di un sistema. E tanto sono persuaso di questa verità, da ritenere per certo, che se diventassi ministro, o abbandonerei me tosto il ministero od istupidito dall'ambiente malefico delle aule ministeriali, mi lascerei trascinare dalla corrente. Ma i miei avversari, simili ad impositori, che trattano affetti da malattie insanabili, non rifinano dal baloccare il popolo con illusioni.

Un tempo era la fusione collo Stato peggio governato d'Italia, che doveva fare la fortuna della Sardegna. E la fusione fu fatta: e fu maledetta prima d'essere compiuta. Poi fu l'editto del 4 marzo, ossia Statuto, che si spacciava come un rimedio universale dei nostri mali: e i nostri mali peggiorarono. Finalmente non si parlò che difare l'Italia. E l'Italia, siccome il governo ha annunziata alle Camere, è già fatta; perché per esso, le province che tutt'ora ne restan disgiunte non presentando molto da rodere, pare che non debbano aversi per parti d'Italia. Ma i milioni che ci reca Venezia possono mai bastare alle dilapidazioni del sistema? Argomentando da quanto avvenne a ciascuna delle altre annessioni, no non possiamo attenderci che un maggiore scialacquo delle sostanze, del popolo, e quindi nuovi debiti e nuove estorsioni.

Ora ai giocolieri de sistema, per distrarre la vostra attenzione, non resta che chiaccherarvi al dilungo di tutto ciò che avverrà con altri ministri e con altri deputati.

Dal 1847 in qua si sono succeduti nel potere da 160 a 170 ministri. In vero che ci vuole una fede più che giudaica, per dare qualche importanza ad un cambiamento di ministero, e per non disperare dell'avvenuta dell'aspettato messia dei portafoglio! Ed una Camera indipendente, devota agli interessi del popolo quando l'avrete? Quando vi sarà dato d'eleggere tre o quattrocento eroi o minchioni, i quali preferiscano i zeri, o l'ingratitudine con cui rimeritereste la loro indipendenza, all'oro ai ciondoli, alle cariche, ai titoli con cui il governo può comprare la loro servilità. E se riusciste ad eleggere una Camera determinata a far rispettare gli interessi del popolo, sarebbe lasciata sussistere?

E non venendo congedata, potrebbe essa fare alcun bene senza il beneplacito del potere esecutivo e della Camera da essolui creata, e nella quale può conservarsi sempre la maggioranza, mercé di intrusione di nuovi membri?... Però la Sardegna non è allo stato in cui si trova, solo perché dipende da un governo, che ne è, ne vuol essere col popolo e pel popolo, ma perché questo governo ne dista le centinaia di miglia, e che, non conoscendoci e disdegnando conoscerci, vuole imporsi su tutto e su tutti, parte per gelosia di potere, parte per avidità di pecunia.

Ora un' isola qualunque non può prosperare, ove non si governi da sé o non abbia tutta l'indipendenza che può conciliarsi colle prerogative del potere centrale il più limitato.

E la Sardegna non raggiunse in alcun tempo la prosperità cui è chiamata dalla sua posizione, dai suoi porti, dalla varietà dei suoi prodotti, appunto perché non ebbe mai nel suo seno un governo unico e si organizzato, da poter esser emendato radicalmente e costituzionalmente. Raggiungerà essa questa prosperità, sotto un governo sofferente d'ogni libertà locale, e che esaurisce tutta la sua affannoneria nell'impigliarci con una rete di leggi barocche, e nello studiare i mezzi di trarci soldati e milioni?

Soldati! Milioni! ci gridano non pochi fra i nostri fratelli d'oltremare. Per difendere la vostra Isola, occorrerebbe ben altro, che i 20-25 mila soldati che voi date all'esercito. E se badassimo a ciò che ci rendete, ed a ciò che ci costate, e molto più a ciò che pretendete, noi dovremmo ritenervi piuttosto come un peso!

Rispondo che noi diamo tanti soldati, quanti, avuto riguardo alla popolazione, ne danno le altre province.

Aggiungo che, da secoli, noi non siamo difesi da alcuno. Da soli, noi respingemmo i Francesi nel 1637, da soli, gli respingemmo nel 1793. Ne è da supporre, che un governo, il quale, malgrado la sua alleanza collo Stato il più agguerrito d'Europa ci diede Lissa e Custoza, voglia o possa per l'avvenire distrarre le sue forze, per difendere la lontana Sardegna. Intanto abbiamo il fatto, che quando scoppio qualche guerra nel continente ci furono tolti fino i carabinieri. Anche riguardo i soldati, pare dunque che noi siamo in attività.

Veniamo ora all'affare dei contadini. Ecco il quadro delle somme estorte allapovera Sardegna nel 1865:

Gabelle

Cagliari: 3,326,792 32; Sassari 1,467,242 50
Tot. 4,794,034 82
Ricchezza mobile

Cagliari: 824,183 01; Sassari: 443,815,97
1,267,998 98
Demanio e tasse

Cagliari: 1,008,179 91; Sassari: 584,893 88
1,593,073 79
Vendita di beni dem.

Cagliari: 179,056 35; Sassari: 1,612 89
180,669 24
Sali e tabacchi
2,099,457 70
Prediale
2,628,150 00

Totale L 12,563,384 53



Aggiungete a questo totale l'imposta sui fabbricati, il prodotto delle poste, dei telegrafi ecc.: aggiungete le spese di riscossione; aggiungete le multe nelle quali i contribuenti incorrono, parte per impotenza, parte per le quasi sempre impunite, epperò sì frequenti ribalderie degli agenti fiscali: aggiungete le tante altre mangerie, che lungo sarebbe il menzionare, e non terrete per esagerata la somma di 15 e 16 milioni estorti in un solo anno dalla Sardegna. Non basta. Dopo il 1865, quasi tutte le accennate imposte crebbero per le leggi sui fabbricati, sul dazio consumo, sui tabacchi, sul registro, sul bollo ed altre. E quasi tutta questa roba fosse un nonnulla per una popolazione di cinque a sei centomila abitanti, si sopraggiunsero i 9,671,725 00 d'imprestito forzato coll'aggiunta delle solite frange!

Ora che ho accennato ciò che costa alla Sardegna il suo italianismo, lascio ai nostri fratelli di oltremare il dimostrare, quanto costi ai medesimi il loro disinteressato sardismo. Io dubito, che sieno per aggiustare il conto, neppure coi 100 m. franchi promessi ai nostri Comuni, per aiutarli a far delle strade.

Dopo il poco che ho detto, vi sarà tuttavia un uomo di buona fede, qui possa parere un problema la causa principale dei nostri mali? Un governo che pone tanta diligenza nello spendere il meno che possa nell'Isola, quanta ne pone nel ricavarne sempre di più; un governo, che, per ciò, non ci lascia che un ombra di forza pubblica; che macchina tutto dì soppressioni d'uffici e d'istituti pubblici; brontola ad ora, ad ora sull'esistenza delle nostre Università e della Corte d'appello; giunge ad accattare dagli stranieri non poche cose, che in Sardegna troverebbe migliori ed a miglior patto; un governo, che nel mentre s'appropria la maggior parte delle rendite comunali, addossa ai comuni ed alle provincie quasi tutti i suoi carichi, e che inoltre gli sottopone ad una amministrazione dissennata e dispendiosissima, un governo insomma, la cui grettezza non può essere pareggiata che dalla sua avidità; un governo siffatto basterebbe ad immiserire, non noi ma il popolo più industre e più dovizioso della terra.

Intanto, quai rimedj voglio contrapporsi a quest'ulcera cancherosa che va corrodendo l'Isola? L'introduzione in Sardegna della banca fondiaria più esigente e più usuraia che forse esista in Europa, qualche tratto di strada, ed una ferrovia, il cui tracciato fu abbandonato ai più vituperevoli intrighi, e contro cui protestarono da 70 ad 80 Comuni! Ma gl'imprestiti, contratti per pagare debiti, finirebbero di rovinare i proprietari: le strade, se ingrassano qualche intraprenditore, non giovano che ai Comuni, ai quali agevolano il transito, ed alle poche centinaia, e sia pur migliaia di giornalieri, che sono ammessi a lavorarvi: e in un paese, dove le braccia scarseggiano, l'esecuzione di opere pubbliche che richiedano molte persone, nuoce, in un certo modo, all'agricoltura. Un popolo non può rilevarsi, che col lasciare i capitali a chi li produce.

Ai soli produttori è dato d'impiegare economicamente e vantaggiosamente i loro risparmi, d'alimentare il lavoro, e migliorare in tal modo la condizione di sé stessi e di quelli della cui opera hanno bisogno.

Un ultima interruzione: <<Voi, o bene, o male, mi gridano benevoli e malevoli, ci avete parlato dai nostri mali; ce ne avete indicata la causa; ci avete pur detto che il migliore rimedio sarebbe il lasciarci tanti milioni, che ci si tolgono dal governo. Ma come, ma come fare, perchè quei milioni rimangano nell'Isola? Tollererebbe il governo in Sardegna un'agitazione all'O' Connel, quale l'Inghilterra tollerava in Irlanda? O vorreste consigliarci una rivoluzione?...>>.

Io non so, se il governo tolleri, che certe cose si facciano nello stesso modo, con cui gradisce, che vengano fatte le fusioni e le annessioni, perché l'affare cambia aspetto. Le rivoluzioni poi, richiedono, per bene riuscire tal favore di circostanze, che un posapiano, qual io mi sono difficilmente s'induce a consigliarle.

Un insurrezione non farebbe, che dare al governo la occasione di ripetere le calunnie e le stragi onde fù soprafatta la insurrezione di Palermo.

I nostri mali saranno adunque senza riparo?... L'avvenire sta nelle mani di Dio: e Dio ajuta chi si ajuta dice il proverbio... Il molto che mi resta dire sull'argomento di questo articolo, io il dirò, quando che sia, in apposito libro, che mi riservo di pubblicare, dove mi sia lecito descrivere quel che sento, ed abbia speranza di suscitare una nuova questione: la questione sarda.


                                                                                                               Il vostro coelettore

                                                                                                                   G. B. Tuveri

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